I RACCONTI DI ROBY4061


In questa pagina ho voluto riportare alcuni racconti che ho scritto negli anni passati, traendo spunto dalle mie peregrinazioni per i monti. Alcuni di essi sono stati pubblicati sul sito della CDA.



ERA FERMO SUL COLLE

Era fermo sul colle, si era fermato per ammirare quell’immensità di valli e creste che si stendeva davanti ai suoi occhi. Le testate delle valli erano avvolte in una strana foschia, dietro le creste un muro di nuvole sfumate in una tenue nebbiolina, di un colore azzurrino non gli lasciava dubbi: il foehn doveva soffiare forte lassù. –Strano- pensò- non mi sarei mai immaginato di trovarlo oggi-. Quel vento che odiava e amava allo stesso tempo, quel vento che in quello strano inverno si faceva desiderare e ben poche volte aveva visitato le sue valli quell’anno. Gli mancavano il rumore delle piante percosse dalle raffiche, l’aria limpida che solo il vento da nord sa regalare, quell’odore sano di montagna che gli riempiva la mente di immagini di valli e creste avvolte nella tormenta…A quel punto si soffermò a pensare se era il caso di proseguire: probabilmente in poco tempo il vento sarebbe arrivato fin lì, e sulla cresta sarebbe stato insopportabile: vedeva chiaramente nuvole di neve alzarsi dal pendio terminale e disperdersi nell’aria scossa dalle raffiche. –Anche la neve non deve essere una meraviglia-si disse-potrebbe esserci anche qualche dannato lastrone. E infatti già salendo aveva notato in alcune zone la neve lavorata dal vento. Intanto il silenzio della montagna era interrotto dalle raffiche che si facevano più vicine e rabbiose, lo si sentiva arrivare da lontano, e infrangersi contro la parete rocciosa al fondo della conca del lago: e la parete reagiva scaricando piccole slavine di neve polverosa. Decise di non rischiare e di scendere a ripararsi in quel gruppo di baite che aveva visto durante la salita prima che arrivasse la tormenta. Rimase ancora un’ attimo ad ascoltare il vento correre lungo i solitari valloni e uscire furioso sulle creste, disperdendo nell’aria nubi di neve polverosa: era questo che gli piaceva del vento, di come rompeva il candido silenzio della montagna invernale. E mentre era assorto nei suoi pensieri, un primo refolo gli accarezzò il volto: non fece in tempo a girarsi che gli fu addosso con inaudita violenza: cercò di rimanere in piedi ma non ci riuscì e fu sbattuto a terra. Il vento trasformò il colle in un inferno bianco, la neve polverosa gli sbatteva violentemente conto la faccia, gli mancava il respiro, mentre tutto intorno diventava invisibile: non vedeva più niente, il frastuono della tormenta lo assordava, si sentiva soffocare. Cercò di ripararsi provando a scendere sottovento accecato dal biancore: fatti pochi metri si rese conto che era finita: sentì il terreno scivolare sotto i suoi piedi, cercò disperatamente di tenersi a qualcosa, ma non c’era niente a cui aggrapparsi. Fu un attimo: il lastrone si era staccato sotto il suo peso e lo stava trascinando giù per il pendio: rimase avvolto in quel gelido turbinio di bianche faville, in quell’inferno bianco…successe tutto in un attimo: in pochi minuti rimase solo il rumore del vento, solo il vento a rompere il silenzio della valle. E poi scese la sera, e anche il vento si calmò: ora il silenzio regnava sovrano, la gelida mano della notte si posava su di lui: ed ecco un ultimo gelido alito di vento: piccole faville di neve polverosa si rincorsero lungo il pendio fino ad arrivare lassù, sulla cresta, dove in un attimo si dispersero nell’aria gelida della notte, in una nube effimera: era la sua anima che saliva al cielo.

E poi fu solo il silenzio. 

05 febbraio 2001

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RITORNO ALLA VITA

L’aria del  mattino era frizzante, nonostante fosse già aprile: ma nella valle si respirava ancora l’aria dell’inverno, che regnava lassù tra le vette, dove si posava il suo sguardo.Il sole non era ancora sorto, ma le ultime stelle resistevano alla luce del nuovo giorno che stava nascendo. Ripeteva quei gesti ormai abituali: indossati gli scarponi agganciava gli sci e cominciava a far scivolare gli sci sulla neve. La neve fresca del giorno precedente si era mantenuta farinosa grazie al gelo della notte: non si era lasciato perdere l’occasione, trovare la “polvere” in quella stagione non era facile. Era il primo, avanzava lasciando una traccia lineare tra gli alberi carichi di neve, alberi che stavano già vestendosi di verde, del resto era ormai metà aprile. Mentre usciva dal bosco vide che il sole già lambiva le creste orlate da grosse cornici, che illuminate dalla luce del mattino apparivano meravigliose nella loro perfetta geometria. Ripetendo i soliti meccanici gesti risaliva i dolci pendii immacolati, nel silenzio interrotto solo dal rumore degli sci che affondavano nella neve, fermandosi a riprendere fiato di tanto in tanto e immerso nei pensieri che affollavano la sua mente.

Si voltò verso est: mancava poco, ecco, il sole lo aveva raggiunto, i suoi raggi lo sfioravano riempiendolo di calore e di luce: rimase qualche minuto ad osservare i giochi di luce disegnati dalla foschia in fondo alla valle e proseguì oltre, verso il colle. Vi arrivò stanco ma felice, al giornata era meravigliosa e fredda, c’era poco vento e la solitudine regnava sovrana per tutto il vallone: guardò bene: sì non c’era nessuno, era completamente solo. Si tolse gli sci e si riposò qualche minuto; poi si incamminò per la cresta innevata: qualche passo a piedi e poi le boccette finali, che superò con piacevole arrampicata, anche se la neve farinosa gli diede qualche problema: ed ecco la croce della vetta: davanti a lui si apriva un orizzonte sconfinato di montagne e valli a perdita d’occhio. L’atmosfera era limpidissima, qualche raffica   di un gelido vento da nord scuoteva l’aria e si fermò  ad ascoltare il silenzio: si sentivano solo al neve trasportata dal vento e il rumore del torrente, laggiù nel fondovalle, dov’era primavera ormai, e tra le ultime chiazze di neve fiorivano i bucaneve. Decise a malincuore di scendere quasi subito per evitare rischi inutili, ora che il sole cominciava a farsi sentire. Ripercorse la cresta fino al colle dove aveva lasciato gli sci, tolse le pelli e si preparò per la discesa: nel frattempo il vento aveva rinforzato e la neve si alzava in grosse nubi polverose.

Cominciò la discesa per portarsi sotto vento: disegnò curve perfette sulla neve farinosa, arrivando in pochi minuti alla base del canale che sosteneva il colle: guardò verso l’alto le enormi cornici che orlavano la cresta a sinistra, oltre le quali sbuffi di neve si perdevano nell’azzurro del cielo scosso dal vento. Si girò per riprendere la discesa: in quel momento udì un forte boato provenire dal canale: realizzò subito che una di quelle cornici aveva ceduto: si lanciò giù per il ripido pendio cercando una via di fuga, mentre sentiva il respiro della morte bianca che si avvicinava. Quell’attimo gli sembrò un’eternità: in pochi secondi fu scaraventato a terra e avvolto in un turbinio di gelide faville, un inferno bianco che gli toglieva il respiro, si convinse che non ne sarebbe uscito vivo. Cercò a tutti i costi di rimanere a galla, di non lasciarsi trascinare nel nulla. In quei pochi secondi gli passarono davanti agli occhi le immagini della sua giovane vita. Lottò con tutte le sue forze fino a quando quell’infernale carosello si fermò alla fine del pendio, dove si apriva una piccola conca. Anche il vento era cessato , ora era solo il silenzio a regnare nel vallone. Il suo cuore batteva all’impazzata, sentiva l’aria mancare ma aveva ancora un po’ di lucidità: vide un chiarore sopra la sua testa, un chiarore azzurrino che si apriva tra i blocchi di neve. Riuscì a uscire all’aperto con una mano e gli sembrò di rinascere: recuperando tutte le energie che gli erano rimaste tornò alla luce,a respirare l’aria gelida della montagna. Gli ci volle più di un’ora per riprendersi dallo spavento e per ritrovare gli sci in quell’ammasso di neve che lo aveva rapito a tradimento, che gli aveva riempito gli occhi di terrore, che gli aveva tolto il respiro ma che lo aveva lasciato vivo. Riagganciò gli sci, e, dopo un’ultimo sguardo a quella montagna che tanto amava e che lo aveva tradito, ricominciò a scendere, a scendere con gran felicità verso la vita. 

11 aprile 2001

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UNA SALITA CON GLI SCI ALLA CIMA MERIDIONALE DI SEIVA

Scese dalla macchina e respirò l’aria frizzante del mattino a pieni polmoni. Il sole era sorto da poco ma tutto il fondovalle era ancora in ombra, ma quando volse lo sguardo verso le Levanne vide che erano illuminate da uno splendido sole, e si stagliavano contro il muro di nuvole del foehn.

Fece automaticamente, ancora assonnato, i soliti preparativi: pensò a quante volte aveva ripetuto quei gesti in quella fantastica stagione, stagione che aveva cominciato a novembre, alla prima neve, quella leggera e polverosa che ricoprì le valli che amava, ferite brutalmente dalla spaventosa alluvione di ottobre, e che ora si avviava alla conclusione.

Agganciò gli sci e cominciò a farli scivolare ritmicamente sulla neve gelata.In pochi minuti salì ai laghetti. Si voltò a guardare verso l’Agnel: il lago aveva cominciato a liberarsi dalla morsa del ghiaccio, e lampi di blu profondo si facevano largo tra il bianco della neve ancora abbondante.

Abbandonò quasi subito la strada, affollata di scialpinisti, e si diresse solitario verso la Costa della Civetta. Il sole era caldo, ma qualche gelida raffica di foehn lo scuoteva di tanto in tanto, sollevando la neve polverosa della tormenta. Arrivò all’insellatura sulla cresta,e proseguì verso il colle di Ferauda, sempre nel silenzio rotto solo dal rumore degli sci che grattavano sulla neve e da qualche sbuffo di vento. Un centinaio di metri più avanti c’era un altro solitario: si salutarono con un cenno e proseguirono ognuno per la propria strada. E’ proprio strana la gente, in montagna.

Percorse tutta la valletta che costeggiava il versante meridionale della Punta Violetta, attraversando dei bei dossi, fino alla stupenda sella del Colle di Ferauda. La meta era ormai vicina: sull’imponente Punta Fourà l’altro scialpinista solitario saliva per il ripido pendio sopra il colle. Si fermarono entrambi ad osservarsi e poi proseguirono. Attraversò tutto il ghiacciaio di Punta Fourà dirigendosi verso il ripido pendio ovest della Cima di Seiva. Gli venne in mente l’ultima volta che vi era salito: era il 7 ottobre 2000, la neve ricopriva già le montagne. Se lo ricordava bene.

Se lo ricordava bene perché era l’ultima volta che aveva percorso quella valle così come la conosceva. Poi c’era stata l’alluvione, e un inferno di acqua e fango ne aveva stravolto la geografia. Mentre era assorto in questi pensieri risaliva faticosamente il ripido pendio, arrivando in breve sulla cresta sommitale, a pochi metri dal caratteristico monolito che costituisce la vetta. Il silenzio era totale, solo il lontano rumore del torrente giù nella valle, o qualche raffica di vento rompevano l’equilibrio. Tutto il massiccio del Gran Paradiso era libero dalle nubi, si stagliava nitido contro il cielo. Da dietro la Galisia invece si affollavano nubi su nubi, che strisciavano lungo la catena di confine, spinte dal foehn. Qualche grosso cumulo scavalcava la cresta e passando avvolgeva tutto in un turbinio di nebbia, neve e vento, poi continuava la sua corsa verso valle, e si univa ai suoi compagni nella pianura, dove si era formato un cielo blu cobalto, molto suggestivo, che creava un fortissimo contrasto con il bianco delle vette innevate e dei cumuli di calore che si formavano sulle creste della bassa valle. Rimase a lungo ad osservare quell’incredibile spettacolo naturale, poi fu ora di scendere. Meccanicamente tolse le pelli, agganciò gli scarponi e fece scattare gli attacchi degli sci. Volse ancora una volta lo sguardo verso il silenzioso monarca, che veniva avvolto dalla tormenta in arrivo. Poi si lanciò in discesa, una serie di curve ed era sul ghiacciaio, e poi ancora giù, voltandosi di tanto in tanto, ma nessuno lo seguiva, era sempre solo, sentiva solo il rumore dei suoi sci, e nient’altro, al massimo una marmotta che fischiava lontano, là sul fondo del piano, dove l’erba verde cercava di strappare alla neve ogni giorno un pezzettino di aria in più. Arrivò sul fondo del piano, dove i serpenti d’acqua si facevano strada tra la neve ancora abbondante, e qualche marmotta giocava a ricorrersi. Risalì fino ai laghi, dove in poco tempo cominciò a nevicare. Una neve fine, fredda, secca: la tormenta scendeva dalla Basei con il suo carico di bianche sorprese. Con un ultima fatica fu al colle, dove rincontrò la civiltà: un cenno di saluto e poi fu pronto per l’ultima discesa. Si voltò indietro, verso il piano che si allungava fino alla Grivola, laggiù, in fondo, avvolta dalle nebbie. Ma era ora di tornare: scese lungo la strada, con un serie di curve e traversi, rendendosi conto che quella probabilmente erano le ultime curve di quella stagione che a malincuore stava ormai chiudendosi. Ci siamo quasi-pensò-Anche questa è fatta. Ecco, le ultime curve, l’ultima neve, ancora una, no ce n’è ancora un'altra…..No questa è davvero l’ultima. E’ finita. Si guardò intorno. Sì, è davvero l’ultima. Si chinò, fece scattare gli attacchi, e si tolse gli sci.

Si volse ancora un istante verso la Violetta, con un velo di tristezza negli occhi: poi si mise gli sci a spalle e si diresse verso casa: era ora di tornare. Alla prossima – pensò – e si incamminò lungo la strada, voltando le spalle al caldo sole di giugno.

20 giugno 2001

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L'ULTIMA ASCENSIONE

Risalivano velocemente il ghiacciaio, o meglio, quello che ne rimaneva. Il sole picchiava forte sulla loro testa, quel sole che ormai era diventato insopportabile, quel sole che negli ultimi anni faceva strage di ghiacciai sulle alpi divenute irriconoscibili. I loro volti stanchi erano attraversati da rivoli di sudore, il loro passo si faceva sempre più stanco. Si fermarono a prendere fiato per un momento. Con la paura negli occhi si voltarono per vedere se qualcuno li seguiva: niente, non c’era anima viva oltre a loro, in quell’angolo di paradiso che gli rimaneva. Si ricordarono della prima volta che si incontrarono, su quella stessa montagna. Era la metà di agosto di oltre dieci anni prima, quando i loro sguardi si sfiorarono per la prima volta, nel freddo del mattino d’alta quota. Erano tempi in cui la montagna era libera, era libera e viva. Ogni estate centinaia di persone si dilettavano sulle Alpi, salivano vette, camminavano per le valli, si tuffavano nella natura. Ma nel frattempo il clima si scaldava sempre di più, i ghiacciai scomparivano a vista d’occhio, la siccità imperante metteva in ginocchio le città. Il livello del mare era salito, molte città costiere erano state abbandonate, e nuovi insediamenti erano sorti in quelle valli. E fu così che si stravolse del tutto un’ecosistema già fragile, già violentato da frane e alluvioni. Le Alpi "palestra di gioco per l’Europa", come venivano definite oltre un secolo prima dai primi alpinisti inglesi, si stavano riducendo a deserti di pietre e cemento. Le zone libere dall’asfalto si riducevano sempre di più, e alpinisti, escursionisti, e tutti coloro che amavano la montagna, si concentravano i poche aree sempre più ristrette, quelle poche che rimanevano come le ricordavano. Ma il troppo affollamento significava un forte incremento degli incidenti. Le compagnie di assicurazioni, accecate dal profitto, comandavano già da decenni buona parte dell’economia, e sotto la loro spinta fu così che furono vietate le Alpi. Fu proibita ogni attività o sport legata al mondo alpino. A nulla valsero le proteste di chi con la montagna ci viveva. Ogni infrazione della legge veniva punita duramente, e ai ragazzi come loro non restava che frequentare quell’ambiente clandestinamente, con il rischio di venire scoperti. Negli ultimi anni però la situazione si fece sempre più drammatica, numerosi alpinisti scoperti in flagranza si lasciarono cadere dalle pareti per non farsi arrestare, non volevano rinunciare all’unica libertà che gli era rimasta in quel mondo malato, l’unica libertà che gli permetteva di tornare al contatto con la natura, di uscire dalle grigie pareti degli uffici in cui erano costretti dalla logica del profitto.

Si guardarono fissi negli occhi: una lacrima scese sul volto di lei, nelle loro menti correvano le immagini dei bei momenti che avevano passato insieme, delle montagne che avevano salito, delle valli che avevano scoperto. Avevano lasciato tutto da due anni, rifugiandosi tra le poche montagne non civilizzate. Vivevano così, incitando alla rivolta contro quel sistema repressivo, braccati giorno e notte. Erano ormai conosciuti in tutto l’arco alpino per le loro imprese, qualche vittoria l’avevano ottenuta, con il loro piccolo esercito di ribelli, la loro missione era quasi conclusa, decine di eredi seguivano il loro esempio. Ma il cerchio intorno a loro si stava stringendo, sapevano che la loro strada stava per arrivare ad un vicolo cieco. Avevano quindi deciso di salire ancora una volta quella montagna dove si erano incontrati. Lasciarono il glorioso rifugio, ormai in rovina, che era notte fonda, una notte di luna piena, una luna che illuminava creste e vette immerse nel silenzio totale, rotto solo dai loro passi sulla morena. Le prime luci del nuovo giorno si allungavano sulle vette circostanti, le ombre della notte si ritiravano, quando giunsero alla base del pendio terminale. L’aria era piacevolmente frizzante, un mare di nubi in continua agitazione copriva quel mondo che rifiutavano, nascondendolo alla loro vista., le montagne ne uscivano fuori come delle isole, delle isole di vita in un mare di nulla. Arrivarono sulla vetta con il primo sole. C’erano riusciti, erano arrivati là dove volevano, al termine di quella corsa. Si presero per mano e restarono in silenzio ad aspettare il momento. Intuivano il solco della Valnontey, quello della Valle dell’Orco, la Valsavarenche. In lontananza la piramide del Monviso sovrastava lo smog e le nuvole. Un refolo d’aria accarezzò i loro volti bagnati dalle lacrime. Erano consapevoli che quella era l’ultima volta che i loro sguardi si incrociavano.Una voce lontana ruppe la magia: erano vicini, li avevano scoperti. Ecco, gli sguardi dei fuggiaschi e degli inseguitori si incrociavano, pieni d’odio e di rabbia. Era giunto il momento, la loro strada era arrivata al vicolo cieco che temevano da anni. Lui le strinse forte le mani, poi si abbracciarono. Mano nella mano si volsero verso l’abisso che sprofondava nella nebbia. Sentirono ancora le voci di chi li braccava, ormai prossime, e con gli occhi gonfi di lacrime si lanciarono un’ultima intesa. Chiusero gli occhi e si lasciarono andare, nella loro ultima corsa verso la libertà. 

19 novembre 2001

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GLI OCCHI DEL SILENZIO

La valle era immersa nel silenzio, il silenzio del primo mattino di un giorno di primavera. L’aria ancora frizzante gli ricordava che l’inverno, in montagna, era ancora dietro l’angolo. Si guardò intorno, non c’era anima viva, l’unico rumore era quello del torrente, che con i primi tepori primaverili si stava risvegliando. Si preparò a partire, si mise lo zaino e si mosse lungo le rive del torrente, entrando presto nel lariceto. Avanzava muovendo alternativamente gli sci, quasi ipnotizzato dal rumore che essi facevano sulla neve gelata. Quando uscì dal bosco fu inondato dal sole, i pendii superiori gli apparivano in tutta la loro bellezza, il cielo era di un azzurro profondo, sembrava finto tanto era intenso, tutta la valle era avvolta in una limpidezza insolita. Fece una breve pausa e poi ricominciò a salire. Avanzò di pochi passi, e si fermò nuovamente: alcuni rumori nel bosco attirarono la sua attenzione, gli sembrò che qualcuno lo seguisse. Ascoltò attentamente, ma non sentì più nulla, e proseguì oltre. Il sole era molto caldo, rivoli di sudore gli scorrevano sul volto, si fermò ancora ad ascoltare le voci della montagna, il suono del torrente ormai laggiù nella valle, ed ebbe nuovamente la sensazione di essere osservato, ma da chi? Non vedeva nessuno intorno a sé, tutto questo però cominciava a dargli un certo senso d’inquietudine. Avvolto nei suoi pensieri continuava a salire, avanzando sui dolci pendii, spingendo lo sguardo sempre più lontano, e voltandosi un attimo indietro vide una sagoma femminile sbucare dagli ultimi radi larici, là in basso. Allora non era solo una sensazione – pensò, e osservò quella persona che stava salendo velocemente. Fu colto da un sussulto quando la riconobbe. Era lei, ne era sicuro, era il suo angelo custode. L’ultima volta che era apparsa dal nulla le avrebbe voluto parlare, ma non c’era mai riuscito, neanche allora: l’unico modo con cui comunicavano era attraverso lo sguardo, attraverso quegli occhi chiari, quell’espressione che gli diceva tutto quello che c’era da dire, senza rompere il magico silenzio della montagna. L’aspettò, e quando lei gli si affiancò, si lanciarono il solito sguardo d’intesa, e ripresero a salire insieme. Erano le uniche due persone in tutta la valle, ma si sentivano sereni e tranquilli, mentre si immergevano nel loro mondo, quel mondo fatto di neve  e di freddo, di valli e di creste, che ogni giorno dell’anno sognavano di percorrere insieme, e ora che ciò accadeva, come le altre volte, solo i loro occhi comunicavano i sentimenti che affollavano i loro animi. Risalivano la dorsale in perfetto silenzio, integrati perfettamente nell’ambiente che li circondava, come se facessero parte della montagna, le loro sagome si stagliavano contro il blu profondo del cielo d’aprile, sotto un sole caldo e vitale.

Arrivarono sulla vetta, e si trovarono di fronte lo spettacolo unico di una vista a perdita d’occhio di montagne innevate. Presero un po di fiato, e poi si sedettero ad osservare quell’impareggiabile visione, sempre un assoluto silenzio. Era la terza volta che si incontravano, ma nessuno dei due, ancora una volta, riusciva a parlare, nessuno dei due aveva il coraggio di rompere quella specie di incantesimo che li avvolgeva. Si prepararono per scendere: il sole era caldo, troppo caldo per aspettare ancora. Quando furono pronti si guardarono negli occhi: il volto di lei era sereno e il vento le accarezzava i capelli, gli sorrise e con un cenno lo invitò a cominciare a disegnare le curve sul pendio immacolato. Dopo di lui si lanciò nella discesa, e insieme segnavano il versante della montagna con una serie di serpentine, perfettamente regolari, ricamando quel lenzuolo bianco in simmetria perfetta. L’unico rumore era quello dei loro sci, ma ad un tratto accadde ciò che si aspettavano, e che, in un certo senso, stavano cercando. Era già successo anche le altre due volte, quando si erano incontrati allo stesso modo, quando lei era apparsa come dal nulla: prima era stato lui a riportarla alla vita, l’ultima volta era stato il momento di lei. Si erano salvati a vicenda, uno era l’angelo custode dell’altra, uniti da un silenzioso legame, che nasceva appena si incontravano su quella montagna, un legame in grado di donare la vita l’un l’altra. E ora cosa sarebbe successo? Un tonfo sordo scosse la montagna, il lastrone si staccò sotto i loro sci, vennero travolti entrambi nel carosello bianco. Si cercarono con lo sguardo, incrociarono i loro occhi spaventati, mentre la valanga li trascinava verso valle. Non si sa che cosa passò nelle loro giovani menti in quegli istanti, lottavano per la vita, lottavano per capire che cosa li aspettava dopo quel gelido circo, chi, ora che tutti e due vi erano dentro, li avrebbe riportati alla vita. Quando la massa nevosa fermò la sua corsa, la montagna tacque di nuovo. Si trovarono mano nella mano, non si sa come, a lato della valanga, semisepolti, infreddoliti ma vivi. L’avevano superata, ce l’avevano fatta, si erano salvati entrambi, ancora una volta. Ed era la terza, l’ultima. Si guardarono mentre le lacrime rigavano i loro volti, erano lacrime di gioia, una gioia immensa, la gioia di essere tornati alla vita, insieme. I loro cuori battevano ancora all’impazzata, mentre raccoglievano gli sci in mezzo alla neve. Il rumore degli attacchi ruppe il silenzio, e ricominciarono a scendere, come se nulla fosse accaduto, verso valle, verso la vita.

Avevano perso la cognizione del tempo, non capivano - né avrebbero voluto saperlo - quanto tempo avevano passato su quella montagna, quel giorno. Era il tramonto, non sembrava vero, non potevano essere rimasti lassù tutto il giorno. Invece di dirigersi verso valle, verso le loro case, le loro rispettive vite, si volsero verso la montagna, verso il loro nuovo mondo, mentre gli ultimi raggi di sole di quel giorno illuminavano le creste, immerse nella luce dorata del crepuscolo, mentre mano nella mano, stavano per rompere quel loro magico silenzio, alla vigilia della loro nuova vita.

18 marzo 2002

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CON GLI SCI ALLA PUNTA VIOLETTA, IN SOLITARIA

Sto risalendo la valle Orco, immersa nel sonno domenicale, non c’è anima viva in giro: mi sembra di essere l’unico nella valle, in effetti non ho altre auto, né davanti, né dietro di me. Arrivo a Ceresole, attraverso le borgate assolutamente deserte, poco oltre il lago, nei pressi del paese, i primi segnali di vita. Mi attraversano la strada una decina di camosci, e poi un cane solitario che mi viene incontro. Arrivo alla sbarra, e finalmente scopro di non essere l’unico pazzo con gli sci. Se non che, dopo pochi minuti, mi accorgo di proseguire solo, le poche persone che seguivano si dirigono verso il vallone del carro, rimango così in compagnia di me stesso e dei miei pensieri, che, come al solito, affollano la mia mente. Il cielo è ancora parzialmente coperto da stratocumuli, ogni tanto qualche sprazzo di azzurro lascia ben sperare, ma le Levanne rimangono avvolte nella nebbia. E’ ora di calzare gli sci. Intorno a me ormai non conto più i camosci, non sono nemmeno infastiditi dalla mia presenza, sono solo e integrato perfettamente con l’ambiente che mi circonda. Proseguo la mia salita, quasi ipnotizzato dal rumore che gli sci fanno scivolando sulla neve indurita dal gelo della notte, assorto nelle mie meditazioni, osservandomi intorno, salendo meccanicamente come in trance. Ad un certo punto una volpe attira la mia attenzione, è alla mia sinistra, non pare affatto spaventata. La bestiola infatti mi si avvicina, con sguardo interrogativo, annusando, tranquilla, senza il minimo accenno di paura. Le do del pane, che mangia con gusto, deve essere alquanto affamata, solo due marmotte che litigano riusciranno a distrarla, a risvegliare il suo istinto di predatrice. E’ così che la lascio, proseguo oltre, lascio quella bestiola intenta nel suo dovere di sopravvivenza, mi incammino nuovamente, ringraziando chi o cosa mi ha permesso questo piacevole incontro.

Nel frattempo il cielo si schiarisce un po di più, esce il sole, il caldo, vitale sole di aprile, e tutto viene illuminato, il quadro della natura si carica di tonalità, di luci e di ombre, queste montagne appaiono nel loro splendore. Mi fermo qualche minuto all’Agnel, per riprendere fiato, e ascoltare la voce silenziosa della montagna, poi riprendo la mia salita solitaria verso la Violetta, immerso nelle mie meditazioni. Il cielo si ricopre velocemente mentre percorro i dossi che conducono alla base del pendio ovest della mia meta. Piccoli fiocchi cominciano a cadere, che è ancora in parte libero da nubi, ed è uno spettacolo unico, con il sibilo del vento e queste faville bianche e leggere, che contrastano con l’azzurro del cielo, che, pian piano, si fa sempre più piccolo, una vera coperta di nubi avanza dal fondovalle, avvolgendo ogni vetta, ogni cresta, ogni colle oltre i 3200-3300 m.

“Dunac at metam”, fino alla meta, con questo motto di D’Annunzio nella testa proseguo, superando dossi e vallette, lasciando una traccia lineare,due solchi paralleli nella neve a tratti farinosa, una polvere leggera, quasi impalpabile, fredda. Mi sono spinto troppo a destra, mi trovo ora sotto il triangolare e ripido pendio ovest della Violetta. Decido quindi di salire, la pendenza si fa subito accentuata, metro su metro diventa sempre più ripido questo pendio. Quando mancano circa 200 metri alla vetta tolgo gli sci, me li carico sullo zaino e proseguo più in sicurezza con piccozza e ramponi. Ora non sono più assorto nelle solite meditazioni, la mia concentrazione sale al massimo, deve salire al massimo. Come un automa, lungo la linea di massima pendenza, risalgo gli ultimi 100 metri di questo ripidissimo versante, ora sembra davvero dritto. La fatica comincia a farsi sentire, la neve è a tratti crostosa, la tensione sale, e il nevischio ora cade fitto. Lascio gli sci sulla cresta, da qui proseguo più leggero, con il vento tagliente che mi sferza la faccia, con il pensiero fisso della vetta ormai a portata di mano, che è lì, ad un soffio ormai. Penso di rinunciare un paio di volte, ma quando manca così poco, anche se la stanchezza è tanta, mi manca il fiato, fa freddo, sento che è più forte di me, è come una calamita che mi attira. Ecco la vetta, ci siamo, è fatta anche stavolta. Non ho nemmeno il tempo di riposarmi a dovere, devo scendere, prima che la visibilità diminuisca. Raggiungo gli sci, mi preparo, e poi il rumore dei miei attacchi che scattano segna una nota diversa nel silenzio dell’ambiente circostante. Ed ora, mi porto al centro del pendio. Lo osservo dall’alto: dritto, è dritto, ripido, non penso nemmeno per un attimo ad una caduta, non posso permettermelo: mi concentro ed è ora, mi lancio. In 200 metri saranno mille le scariche di adrenalina che mi scuotono, mi sento elettrizzato, mentre sento le lamine grattare sulla neve, mentre sento tutti i miei nervi tesi come delle corde di violino, mentre ogni mio gesto, ogni curva, ogni movimento nella sua armonia è volutamente e perfettamente calcolato. E’ così fino alla base di questo pendio, mi fermo e mi volto indietro, osservando da dove sono sceso. E stato un minuto di adrenalina pura. Il resto della discesa, fino all’Agnel, non regala le stesse emozioni, ma è comunque meritevole. L’unico rimpianto è di essere soli a godere di tutto questo, ma credo di non essere comunque solo, forse non sono mai del tutto solo in montagna. Mi fermo nuovamente all’Agnel, per scaricare la tensione che ho ancora nelle gambe. Verso valle si fa strada una striscia di azzurro, fra poco il sole tornerà a splendere, si potrà avvertire di nuovo un po di calore. Mi sdraio per rilassarmi, cullato dal soffio del vento, e dal rumore del torrente, nel fondovalle. Passo così tre quarti d’ora, poi rimetto le pelli e risalgo sui pianori dell’Alpe Agnel dove ritrovo la “civiltà”, le prime persone che incontro, dopo ore di solitudine totale. I raggi del sole picchiano sulla mia fronte, si sta bene, tolgo le pelli e mi lancio verso il Serrù, in breve sono al ponte dove avevo messo gli sci, la neve è terminata, le ultime curve e ci siamo. E’ finita. Rimarrei qui, su questo prato,ad osservare le Levanne e il vallone del Carro, solcato da innumerevoli serpentine, ora illuminate dal sole, ma fra poco sarà ora di andare. Sci a spalle m’incammino lungo la vecchia strada militare, regalandomi il piacere di evitare il noioso asfalto, cercando di rimanere ancora un po in quel mondo a me tanto caro. Manca poco ormai, ecco l’auto. Anche questa è fatta, la solitaria in sci alla Punta Violetta è andata, lasciandomi pieno di soddisfazione, inebriato dalla discesa e dai profumi della primavera che lentamente avanza verso l’alto, inesorabilmente, rubando ogni giorno un centimetro in più alla neve, che ogni giorno si riduce sempre di più, lasciando spazio ai crochi, ai non-ti-scordar-di-me, ai primi teneri fili d’erba, al verde della vita che ritorna, che prende di nuovo per mano la montagna dopo il suo sonno invernale, un sonno che volge ormai al termine, come volge al termine anche la mia lunga giornata. Alla prossima – penso - e volto le spalle alla testata della valle Orco, con la mente che già mi spinge verso casa.

22 aprile 2002

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IMPRESSIONI D’OTTOBRE 

E’ il 5 ottobre, il cielo è sereno, il piano del Nivolet è immerso nel silenzio e nella brina. Non c’è nessuno, questo luogo è tornato ad essere magico, un angolo di paradiso tra le montagne.

Il sole d’ottobre comincia presto a scaldare l’animo, mentre salgo ai laghi Rosset, gioielli blu cobalto, incastonati tra i prati ormai color ruggine. L’aria è limpida, le montagne che mi circondano appaiono in tutta la loro bellezza. Mi sento bene, posso respirare a pieni polmoni, lasciarmi trasportare dalle emozioni che solo la montagna autunnale mi può dare.

Proseguo nel silenzio, ad un tratto, mentre il mio sguardo si spinge verso l’ardita piramide della Grivola, appare nell’azzurro del cielo la sagoma della regina delle Alpi. L’aquila, imponente nella sua silenziosa bellezza, mi passa sopra la testa planando come se accarezzasse l’aria, allontanandosi verso le Levanne, verso il sole. Continuo nella mia salita, la meta di oggi è il Taou Blanc, massiccia e caratteristica montagna, che domina l’immenso altopiano del Nivolet sul suo bordo settentrionale. Il terreno è già imprigionato nella morsa del gelo, ma il caldo sole di ottobre fa ancora il suo dovere, la temperatura è gradevole, qualche refolo d’aria ogni tanto ti fa capire che l’inverno pian piano si avvicina. Il Gran Paradiso, sovrano silenzioso di questo regno, si specchia in una pozza d’acqua coperta da un sottile velo di ghiaccio, il ghiaccio d’autunno, limpido e cristallino.

Superati i piani Rosset, giungo in vista della conca che ospita i laghi Trebecchi, altre gemme blu tra i pascoli dai colori d’ottobre. Mentre cammino lascio che la mia mente si muova, verso nuove mete, la pace che mi circonda è totale. La rocciosa parete meridionale della Punta Bes appare in tutta la sua selvaggia bellezza, in questo valloncello percorso solo dalla strada di caccia, mentre gli ultimi ciuffi d’erba cominciano a lasciare spazio alla roccia, l’elemento che qui prende il sopravvento. Il tempo sembra essersi fermato qui, ti sembra di essere in un’altra dimensione, il silenzio, le rocce, il suono di lontani torrenti si mescolano tra di loro, in questo paesaggio quasi lunare. Sono tante le sensazioni che provo in questo momento, la principale è proprio quella di sentirsi per un attimo fuori del mondo, lontani dalla folla, dalla solita frenesia quotidiana, lontani dall’aver fretta, dal rumore, sentirsi lontani dal tempo. Le pietraie lasciano presto spazio ad una finissima sabbia rossastra, dove il piede affonda, mentre il colle pian piano si avvicina. Un ultimo tratto orizzontale, l’aria che arriva dalla Val di Rhemes si fa sentire, ed eccomi al colle Leynir, sovrastato a destra dalla ripida cresta nord della Punta Leynir, rivestita sul suo lato occidentale da un bel lenzuolo glaciale. Appare già il Re delle Alpi, il Monte Bianco fa la sua bella mostra all’orizzonte. Mi concedo una meritata pausa, sul morbido tappeto di ciuffi d’erba secca, al riparo dall’arietta tagliente che arriva dal ghiacciaio sottostante il colle. Una tazza di the caldo è quello che ci vuole, per sistemare lo stomaco, mentre il sole mi scalda la fronte. Rimarrei qui tutto il giorno, ma da lassù avrò una visuale molto più ampia. E’ un panorama che conosco già, ma ogni volta è come se fosse la prima, noto sempre qualcosa di diverso, qualche particolare che la volta prima non avevo colto. Mi rimetto quindi in cammino, ora viene la parte più impegnativa della salita, il superamento della paretina di roccette e pietrisco. In breve si supera quest’ostacolo ed esco sull’ampio e regolare pendio di sfasciumi che caratterizza il Taou Blanc. Continuo a salire con passo regolare, cadenzato, quasi ipnotico, senza più nemmeno tanti pensieri per la testa, salgo e basta. Una specie di trance. Il vento si fa più insistente, l’ambiente e la solitudine che mi circondano e la vista di montagne a perdita d’occhio, mi fanno immaginare per un attimo di essere da qualche parte in Himalaya o sulle Ande, in salita solitaria verso qualche vetta famosa non ancora conquistata. Gli sfasciumi lasciano spazio alla neve, indurita dal gelo, mentre la meta si avvicina. Il panorama si fa sempre più ampio, ogni tanto mi volto indietro per vedere se qualcuno mi segue, ma resto sempre l’unica persona su questa montagna. La cosa non mi dispiace, ad essere sincero, ti sembra che lo spettacolo che hai davanti agli occhi sia solo ed esclusivamente per te. E poi non mi sento mai completamente solo, in montagna. Ma la montagna d’autunno mi piace viverla così, un po’ egoisticamente. Manca poco ormai, sono già stanco, ma la vetta è vicina. Arrivo così sul punto culminante della mia montagna, finalmente. Rimango senza parole, mentre il mio sguardo compie un giro a trecentosessanta gradi, e vedo montagne su montagne, creste e valli che si susseguono fino all’orizzonte. Mi posso finalmente rilassare, c’è poca aria, si sente il rumore dei torrenti laggiù in fondo alla valle. L’unico rumore. Intravedo le case di Pont Valsavarenche, quasi millecinquecento metri più in basso. Ahh, che pace, che tranquillità. Decido di pranzare rivolgendomi verso le Levanne, oltre le quali si distinguono le vette delle mie Valli di Lanzo. Spiccano l’elegante parete nord della Ciamarella e il bel profilo dell’Albaron di Savoia. Quanti pensieri ti possono attraversare mentre guardi le montagne. Tutte le grandi montagne della Vallèe sono nei miei occhi: il Monte Bianco, il Grand Combin, il Cervino, il Rosa, il vicinissimo ed imponente Gran Paradiso. Senza parole, solo qualche lieve cirro solca l’azzurro profondo del cielo, solo qualche isolato cumulo nasconde qualche cima minore, sono senza parole.

Si sta bene, qui in vetta, mi concedo un attimo di siesta, rischio di addormentarmi, quasi imbambolato dal tepore del sole, e dai lontani suoni provenienti dal fondovalle.

A malincuore devo scendere: un ultimo sguardo al vertiginoso salto verticale sul ghacciaio dell’Aouillè, poi è ora di muoversi. In breve, saltellando sulla neve, arrivo al col Leynir, poi continuo la mia discesa solitaria per i pendii di sabbia rossastra sotto il colle, tra pochi rii ancora liberi dalla morsa del gelo, che si farà sentire nella notte. Risalgo per la strada di caccia al colletto Trebecchi, poi è solo più blanda discesa, lasciandosi andare alle più varie peregrinazioni mentali, mentre respiro a pieni polmoni l’aria d’autunno, e mi lascio attraversare dalla vita. Non vorrei più tornare a casa, queste solitudini d’ottobre mi rapiscono ogni volta che le ritrovo. E non vorrei più separarmene. Mentre scendo sui Piani Rosset il sole gioca con l’acqua, creando splendidi ricami brillanti di luci e ombre, mentre la Basei si specchia timidamente nelle acque d’un colore che dal blu si sposa col verde. Si alza un fresco venticello, tagliente, che ti ricorda che l’inverno qui è alle porte, ma indugio ancora sulle rive del lago Rosset, mi porto sul suo bordo orientale, e mi abbasso con gli occhi fino al pelo dell’acqua, con le piccole onde che s’infrangono contro le sponde erbose.

Che strane visioni, con lo sfondo dei pascoli bruciati dal gelo. Proseguo nella mia discesa, il Nivolet si avvicina, scendo all’Alpe Riva, e arrivo in breve al Rifugio Savoia. Sono quasi le quattro del pomeriggio, ci siamo, anche questa è fatta. Respiro ancora l’aria dei duemilacinquecento metri, l’aria di ottobre, volgo ancora lo sguardo alla possente Grivola, là in fondo al piano, poi alzo lo sguardo verso il Taou Blanc, guarda dov’ero qualche ora fa. Fra poche ore sarà buio, la notte riprenderà possesso di questi dossi, di questi laghi, di queste creste, il freddo si farà sentire ed imprigionerà di nuovo i ruscelli in sculture di ghiaccio. Lancio un ultimo sguardo al sole d’ottobre, che è prossimo a morire dietro alla Basei, al termine di un’altra giornata d’autunno, con la mente che mi spinge già verso casa.

09 ottobre 2002

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UNA SALITA ALLA PUNTA ROSSA DELLA GRIVOLA

Rieccomi a Cogne, in un sabato mattina di metà settembre. Quasi esattamente dopo due anni – era il 15 settembre 2001, pochi giorni dopo l’evento che cambiò il mondo – ritorno qui con il proposito di completare il trittico dei satelliti della Grivola. La traversata delle tre punte, la Rossa, la Nera e la Bianca, mi gira per la testa da anni. La nevicata di martedì scorso, la prima vera perturbazione che passava sul nord-ovest da Pasqua, cioè da cinque mesi a questa parte, ha scaricato neve fin verso i 2500 m. Il caldo sole di settembre ha già ridonato ai pendii più soleggiati la veste autunnale, che peraltro vestono già da due-tre settimane, per via della siccità. Ma in quota, e sui ghiacciai tormentati dall’estate più calda da duecentocinquant’anni a questa parte, la prima, soffice neve è rimasta e dona alle montagne il classico aspetto d’inizio autunno. Non avrei mai creduto di poterle rivedere così. Sembrava che l’estate non avrebbe mai avuto fine. Ed invece eccole lì. E cominciano ad assalirmi i dubbi sulla fattibilità dell’impresa. L’unica soluzione è salire, dal colle del Pousset si potrà capire qualcosa di più. L’aria è fresca, ma i raggi del sole scaldano ancora. Le previsioni per questi due giorni sono ottime. I consueti preparativi, e siamo pronti a partire. Ci incamminiamo per i prati di S.Orso, un’oasi verde in mezzo al secco che caratterizza tutta la Vallèe. Il sentiero, ormai a me famigliare, comincia a salire rapidamente, per i pascoli dorati inondati di cavallette, e poi si inoltra nel bosco, tra larici enormi. Usciamo al bel gruppo di baite di Les Ors, sarebbe bello fermarsi già qui. Il sole caldo, il panorama splendido sul vallone dell’Urtier invita a fare una breve sosta.

Ripartiamo, lasciando a sinistra l’aguzza guglia rocciosa dell’Ouillè, rientrando presto tra i bei larici. Arriviamo così al casotto del guardaparco, la fontana un po’ misera ci induce a caricarci di un po’ d’acqua. In teoria all’alpe del Pousset superiore dovrebbe esserci il torrentello. Ma non mi fido molto, carichiamo un paio di litri per ogni evenienza. Entriamo così nel vallone del Pousset vero e proprio, e scorgiamo così la famigliare Punta Rossa, in veste autunnale. La neve scende fin verso i 2900-3000 metri, abbondantemente sotto il colle, la nostra meta di oggi. Attraversiamo due, tre volte il torrente. Il suo letto è desolatamente secco, non c’è un filo di acqua. La siccità della torrida estate 2003 ha colpito duro. I prati secchi, l’assenza di acqua ed il conseguente silenzio totale donano a questo vallone un’aria lunare. Giungiamo alle 14 all’Alpe del Pousset superiore. Ci togliamo dalle spalle il pesante zaino, e mangiamo un boccone. Il cielo è sempre parzialmente velato, cirri di ogni si muovono velocemente nell’azzurro, spinti dal vento che in quota deve essere ancora forte. Il silenzio è davvero totale. E’ qualcosa di impressionante. Riprendiamo a salire, sempre alla ricerca di un rivolo, di qualche goccia che coli dalle pareti. E’ pur vero che in alto c’è tutta la neve che vogliamo, possiamo fonderla, ma non sarà mai come bere dell’acqua corrente, appena sgorgata da una sorgente. Alcuni stambecchi si spostano di malavoglia dal sentiero, basta spostare lo sguardo, e si vedono animali un po’ dappertutto, nella solitudine del vallone. Per un paio di volte abbiamo il miraggio dell’acqua, poi, finalmente, quello che pare essere un luccichio sulla roccia si rivela essere acqua, acqua che cola dalla lunga cresta che dal colle del Pousset scende alla punta omonima. Non ci pensiamo due volte, e ci fermiamo per bere e fare rifornimento. Che meraviglia. Quest’acqua è gelida, ottima, dona sollievo alla gola che già ardeva per la sete. La meta si avvicina. L’aria si fa più frizzante, comincio a pestare neve. Esco al colle ancora inondato dal sole. Sono passate da poco le 17, tira un vento abbastanza moderato da nord. Ed ecco il nostro trittico. Le condizioni non mi sembrano ispirare molta fiducia. Il ghiacciaio del Trajo è tormentatissimo, soprattutto sotto la Punta Nera e la Bianca. E’ notevolmente peggiorato negli ultimi due anni. La Punta Nera, che presentava una panciuta e nevosa, ma liscia parete nord, ora mette in bella mostra a metà, una serie di impressionanti crepacci. Così al di sotto delle depressione tra la Nera e la Bianca, appaiono ciclopici seracchi. Da non crederci, anche tutta la parte bassa del ghiacciaio è un labirinto di crepacci. L’aria è assai fredda, presto ci rintaniamo nel bivacco e ci prepariamo un bel the caldo, giusto per ritemprare il fisico. La salita è stata lunga, ma eccoci qui, al mio amato colle del Pousset, ai piedi della Grivola. Adoro davvero questo posto, ha un qualcosa di magico. Non so perché mi abbia colpito così già la prima volta che venni qui, nell’agosto di quattro anni fa. Ma mi ci sento particolarmente legato. Il vento è freddo e teso, non sembra calmarsi. Ceniamo con calma nella tranquillità del bivacco, mentre l’aria fuori si rinfresca, ed il gelo comincia a prendere il sopravvento sulla montagna. Pian piano si accende il tramonto, con i colossi della Vallèe sfumati nel rosso del cielo infuocato. Una sottile nube lenticolare, come un esile pennellata, affianca le Grandes Jorasses. Un’altra, rossa come il fuoco, adorna il Grand Combin. A meridione, sopra il gruppo degli Apostoli si accende Marte, luminosa come non mai. E’ uno spettacolo unico, nel silenzio rotto solo dal vento. Scende l’oscurità, un ultimo sguardo alle nostre punte, ed è l’ora di ritirarci nel mondo dei sogni. Non fa freddo, nel bivacco. Il sonno mi rapisce presto, portandomi nelle braccia di Morfeo. A mezzanotte mi sveglio. Sento un brontolio. Penso ad una scarica, ma la mia mente, seppure ancora immersa nel dormiveglia, mi induce a pensare ad una scarica sulla Grivola. Non è possibile, la temperatura è sottozero. Un altro brontolio. Decine di pensieri cominciano ad affollare la mia mente. Un temporale? Ma no, non è possibile, le previsioni erano ottime. Un chiarore improvviso, il brontolio che segue. Non ci credo, è un temporale. Siamo al sicuro, dentro ad un bivacco, mi vengono in m,ente le avventure di Bonatti, di quando le previsioni non erano affatto affidabili. Il paragone a cui mi portano i miei pensieri forse è eccessivo. Ma ci troviamo comunque a 3200 metri, in mezzo ad un temporale non previsto. Chi ci dice che al posto di un semplice ed isolato temporale non sia qualcosa di più? Anche se so che non può succederci nulla tra queste pareti mi sento comunque come impotente davanti alla natura. Nonostante centinaia di calcolatori in tutto il mondo venerdì pomeriggio assicuravano il bel tempo, ecco che l’imprevedibile accade, che l’atmosfera non segue le sue regole, e regala la sorpresa, che in altri tempi ed altre situazioni avrebbe potuto creare seri problemi. Guardo fuori dal finestrino, il cielo è velato, ma brilla ancora qualche stella. I brontolii si avvicinano, e con essi i lampi. Riguardo fuori, nebbia. Questo tuono è più vicino. Ecco ora sento un forte ticchettio sulle pareti metalliche di questo nido d’aquila. Piove? Ma non è possibile, eravamo sottozero. Apro nuovamente il finestrino, accendo la frontale. Difficile descrivere ciò che vedo. Miglia, decine di migliaia di faville bianche cadono in ogni direzione, spinte dal vento. Nevica, sta nevicando. Il tempo ci ha fregati. Fuori dal bivacco abbiamo lasciato parte dell’attrezzatura. Anche s vorrei restare a godermi il temporale al caldo delle coperte, sono costretto ad uscire all’aperto, per ritirare gli attrezzi. E’ uno spettacolo, alla luce della mia frontale. Non sembra che faccia nemmeno troppo freddo, eppur la temperatura si aggira intorno ai –2°, e soffia un forte vento da est. Rientro coperto di neve, gli occupanti del bivacco pensano che stia piovendo. Ed invece no, sta nevicando – rispondo io. E’ l’una di notte, tra quattro ore la sveglia. Ci viene un’illuminazione. La tecnologia ci viene incontro, col telefonino cellulare mandiamo un messaggio ad un nostro amico meteorologo, che ci rende noto che questo temporale è dovuto ad una goccia fredda in quota, prevista solo dalla mattinata di sabato. E’ solo un peggioramento temporaneo, domani sarà bello. Speriamo. Ma intanto sento che il progetto della traversata sta naufragando ancora una volta. So già che non la porteremo a termine. Il temprale si avvicina, ci avvolge, ci supera e si nasconde dietro la scura mole della Grivola. Si alza un forte vento da est, che urla e strepita intorno al bivacco. Riprendere sonno è quasi impossibile, ho troppi pensieri che mi frullano per la testa, troppi, non riesco a chiudere occhio, e gli ululati del vento non mi aiutano di certo.  Le cinque del mattino, la sveglia. Fuori è ancora buio, provo a dare un’occhiata. Mi sorprendo nel vedere che il vetro del bivacco, accanto a me, ha il lato interno brinato. Lo apro e guardo fuori. Un chiarore abbacinante si spinge fin giù, nel fondovalle. Non faccio subito caso a questa stranezza. Guardo verso la Grivola. C’è ancora qualche cumulo aggrappato alle sue creste, che resiste disperatamente al vento sempre molto forte. Tergiversiamo per più di mezz’ora. Poi, vedendo che il vento accenna a calmarsi, decidiamo di partire comunque. Ora il cielo si sta schiarendo. Pian piano ci rendiamo conto dello spettacolo cha abbiamo davanti agli occhi. Da una notte all’altra siamo stati catapultati in un’altra stagione. Rimango senza parole. Ciò che prima mi era sembrata un’illusione è la realtà: ha nevicato fin sotto i 2000 metri. Ora ho quasi la certezza che il mio progetto sfumerà. Ma intanto indugiamo, il sole sta per sorgere. Il momento è sempre magico, va gustato col giusto spirito. Pochi attimi dopo le sette del mattino. Ecco il sole che già illumina la Q. 3471, quell’ammasso di detriti sopra il bivacco. Incurante del vento che soffia ancora, sto attendendo quel momento. Ecco, pochi attimi, ed eccolo. Il primo raggio di sole, sbucando dalla cresta sud-est della Tersiva inonda di luce e di calore anche il Colle del Pousset. Il momento dell’alba ha per me sempre un sapore del tutto particolare. Spesso non riesco a descrivere le sensazioni che mi avvolgono in quel momento. Ognuno probabilmente reagisce a modo suo. Io mi sento piccolo, una nullità, quando assito a tale spettacolo della natura. Che sia in montagna, o al mare, o in un’anonima pianura, il momento esatto in cui il primo raggio di sole mi sfiora è un cosa che non riesco a descrivere.

Il sole inonda la valle di Cogne, ancora addormentata nel freddo inatteso. E’ ora di muoversi sul serio, adesso. Risaliamo faticosamente il ripido pendio pietroso che sale alla Q.3417. Dobbiamo fare molta attenzione a dove mettiamo i piedi, la neve caduta, inconsistente, fredda e polverosa, rende scivoloso ogni appoggio, nasconde anfratti e buche pronte a giocarci le caviglie. 

Questa ha tutto il sapore di un’ascensione invernale..e lo è quasi..Con non poche complicazioni, usciamo finalmente su un terreno meno infido. Il largo groppone si protende verso la nostra vetta. Più la valle si illumina e più lo spettacolo appare unico, di rara bellezza, vista la stagione. Arriviamo così sulla cresta, nei pressi del lembo ed il ghiacciaio del Trajo che riveste questo lato della Punta Rossa. E’ tutto bianco, facciamo ben attenzione a dove mettiamo i piedi,, la neve inconsistente copre le rocce lisce dove il piede scivola. Anche il terreno più facile diventa impegnativo, in queste condizioni..La Grivola  incombe, man mano che saliamo di quota la vista si allarga, e sembra di essere in pieno inverno. E’ tutto ammantato del bianco mantello. Superiamo un paio di spallette che danno per altrettante volte l’illusione della vetta…e poi eccola lì, la nostra vetta. Ci siamo. E’ bellissimo, uno spettacolo unico. Ci guardiamo intorno, l’innevamento è discreto, ci capiamo subito. Niente trittico, la traversata sarà per un’altra volta. E’ la seconda volta che vengo respinto dai satelliti della Grivola. Ma non ci sentiamo di rischiare inutilmente. Non ci resta che goderci il silenzio della vetta e della valle intera. Starei qui delle ore, non fa nemmeno freddissimo. C’è una pace totale. Ma a malincuore decidiamo comunque di scendere. Con le dovute cautele, ci incamminiamo per il percorso di salita, con qualche scivolone, per via della neve che con il sole caldissimo sta diventando assai molle. Giungiamo al bivio che ci permette di scendere sul Sella. Eccoci sul bel sentiero, che con un lungo traverso sui ghiaioni che cingono la Punta Rossa da questo lato arriviamo al colle della Rossa. Ora fa molto caldo, anche se siamo a 3200 metri. Il freddo della sera prima è ormai un ricordo. Il sole di settembre picchia ancora forte. Il riverbero della neve è quasi insopportabile, nonostante gli occhiali da ghiacciaio che porto indosso. Sembra di essere in un forno. Vista l’ora, decidiamo di salire ancora la Cresta del Lauson, il cui punto culminante si trova a pochi minuti dal colle. Mi fermo nuovamente a contemplare il silenzio e la solitudine che avvolgono questi valloni. E’ bello vedere come la neve resiste nei pendii meno soleggiati, mentre in quelli più esposti riaffiora ormai l’erba bruciata dai primi geli settembrini. Starei qui tutto il giorno a contemplare. Ma dobbiamo prendere la via di casa. Pranziamo al colle, poi è davvero ora di scendere, e senza troppe soste. Dal colle perdiamo quota sull’ottima mulattiera, e arriviamo sulla parte alta dello splendido vallone del Lauson. Non c’è praticamente nessuno, la montagna sta per essere restituita alla sua solitudine. Ecco il Sella,   dove si ricomincia a trovare la “civiltà”. Facciamo ancora una piccolissima pausa – l’ultima – e poi via, verso Valnontey. La stanchezza comincia a farsi sentire, le ore di cammino sono già tante, ma l’animo è talmente pieno di immagini e di colori e di odori che quasi non ci pensi. Se non fosse che cominciano i vari dolorino, e hai quasi voglia di essere già a casa. Ma l’avventura sta finendo. La fresca fontana di Valontey è come un dono divino, sono stanco, sudato e accaldato, ma quest’acqua gelida mi riporta in Paradiso. Rimane da percorrere la noiosa pedonale, ed eccoci al limitare del prato di Sant’Orso, ecco Cogne, ecco la fine dell’avventura. Anche questa è andata. Una birra gelata, ed un ultimo sguardo alla testata della valle. Un panorama familiare, una valle familiare, ma con la quale ormai ho un profondo legame. La sento mia. Come la Punta Rossa. E’ una delle mie montagne preferite. E’ legata a ricordi di giornate, albe, tramonti unici. Ed anche stavolta la Punta Rossa mi ha regalato emozioni splendide. Quasi mi commuove pensare a cosa ho vissuto in questi due giorni. Mi sembra di essere stato via per dei mesi. Sono stati solo due giorni. Ma ricchi. Ricchi di colori, odori, valli, montagne, creste. Piene d’autunno, di quell’autunno che è qui, è alle porte, ne senti l’odore. Un ultimo sguardo alla mia montagna. Un saluti, un arrivederci. Ma ormai la mente mi spinge verso casa. 

15 settembre 2003

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